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Apertura della gomma ed estrazione
del calco in cera del Nettuno per la fusione a "cera
persa".
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Sergio Bisonti
in laboratorio, sta colando il metallo fuso nella forma. |
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Agli esordi - ricorda Bisonti -
avevo anch'io grane a non finire (...) quando il
metallo si raffreddava erano dolori e potevo tranquillamente
gettare il tutto nel cestino.
Il fotografo Luciano Morotti ha ripreso
i vari passaggi della lavorazione, dal calco alla rifinitura. |
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Breve
intervista tratta da Il Nettuno si racconta, a
cura di Fabio e Filippo Raffaelli, Grafica Editoriale,
Bologna, 1989.
Da tenere sulla scrivania
o, in bella mostra, sul camino.
Non una delle tante riproduzioni approssimative che si trovano,
per poche migliaia di lire, in quasi tutte le tabaccherie
della città ma veri e propri gioielli,
lavorati a mano con quella perizia artigiana che si tramanda di padre in figlio.
Fonditore dall'età di sedici anni Sergio Bisonti parla
dei suoi Nettuno, made in Vergato, come delle creature più riuscite:
«Ho
cominciato con piccole riproduzioni di animali e soldatini poi c'è stato
il colpo di fulmine per il dio delle acque.
Una statua inquietante, artisticamente
perfetta nei suoi volumi. Una sfida talmente avvincente da occuparmi, notte e
giorno, per mesi: il nostro è un mestiere difficile, fatto di pazienza,
di mille piccoli segreti, di cocenti delusioni. E così è stato
anche per il Nettuno.
I primi esperimenti non mi lasciavano per nulla soddisfatto,
il volto era inespressivo, i lineamenti grossolani.
Stavo per abbandonare quando
mi sono ricordato dei consigli che davano, da giovani, nel laboratorio di argenteria
dove mi facevo le ossa: - siamo gli ultimi, Sergio, e dobbiamo sempre dimostrare
che la nostra arte ha il diritto di sopravvivere - .
Ho tirato dritto e oggi
posso ringraziare la mia testardaggine».
Quale procedimento adotta per il suo Nettuno?
«È una fusione in piena regola. Modello in cera possibilmente perfetto,
bagno nel gesso, forno.
Resta l'impronta, si cola il metallo, si spacca il gesso
e il gioco è fatto.
Poi viene l'operazione di rifinitura, il Gigante gira
tra le mani dell'artigiano, i ferri tolgono le imperfezioni, il panno lucida
la piccola statua».
Uno, Nettuno o centomila?
«Per il momento sono a quota duecento riproduzioni ma le richieste inevase
sono moltissime».
Un identikit dell'acquirente?
«Non conosco i miei clienti perché lavoro principalmente per alcune
ditte di Bologna. So solo che molte mie creature hanno già traversato
gli oceani e le montagne.
E sa perché? Il Nettuno, con il Nono Centenario
dell'Università, è diventato il regalo più gradito per i
giovani laureati. Non c'è quasi studente che, ripartendo per il suo paese
d'origine, non metta in valigia una copia del Gigante»
Il mini Nettuno in cifre...
«Pesa poco più di un chilo. Può essere in ottone lucido,
in bronzo verde antico. Io ne conservo addirittura un esemplare in argento massiccio,
troppo costoso per il mercato corrente».
E la produzione con che ritmi marcia?
«Per realizzare una buona scultura non bisogna essere avari di tempo. Al
massimo una o due riproduzioni al giorno. E i problemi di fusione, come capitò al
Giambologna, sono sempre dietro l'angolo.
Ricordo che anch'io, agli esordi, avevo
grane a non finire con l'attaccatura della gamba. Quando il metallo si raffreddava
erano dolori e potevo tranquillamente gettare il tutto nel cestino».
Pensa di continuare su questa strada o di dedicarsi a qualche altro souvenir?
Ricorda le traversie di quel personaggio di Arpino che riproduceva senza posa “L'ultima
cena”?
«La routine è frustrante, in qualsiasi campo. Ma devo dire che il
Nettuno non riesce mai ad annoiarmi. Ogni volta lo vedo sotto un profilo differente:
il gigante buono, la temibile divinità marina, la scultura perfetta.
Ci
si può innamorare di una statua, dei riccioli di una barba, di una gamba
che per mesi ti ha fatto sudare le proverbiali sette camice?
A me è successo». |